MENU

CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO

CONSIGLIO NAZIONALE
DEL NOTARIATO

L’ultimo lavoro del CNN – Problemi in materia di deroghe alle distanze legali (riflessioni sull’orientamento attuale della giurisprudenza)

RSS

15/04/2022

Nazionale

Tutti i lavori approvati dal Consiglio Nazionale del Notariato sono consultabili nella sezione TROVA STUDIO. 

Problemi in materia di deroghe alle distanze legali (riflessioni sull’orientamento attuale della giurisprudenza)  – Studio n. 128-2021/C

  1. L’osservanza di una certa distanza tra i fabbricati si fa risalire al controverso istituto dell’ambitus, forse risalente addirittura alle XII tavole, che cadde tuttavia ben presto in desuetudine.
    Durante il Medioevo, più in Italia che altrove, lo sviluppo urbano aveva già raggiunto livelli assai ragguardevoli. Spesso la città si sviluppa in prevalenza sulla base di esigenze concrete (quali la comodità, la migliore attitudine difensiva, l’igiene e l’estetica), al di fuori di una predeterminazione progettuale.
    Questo contribuisce forse a spiegare perché fu proprio il nostro legislatore a regolare in un codice la materia delle distanze tra fabbricati.
  1. La Corte Costituzionale ha precisato che, la disciplina in tema di distanze tra le costruzioni «attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi» e rientra nella competenza legislativa statale esclusiva. Quella regionale concorrente interviene soltanto perché i fabbricati possono insistere su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche. La legittimità dei regolamenti, in deroga alla regola stabilita dal codice civile, si giustifica allora soltanto nella misura in cui essa si collochi in maniera coerente nel quadro di interventi urbanistici pianificatori funzionali a un assetto complessivo e unitario di determinate zone dell’habitat.
  2. Una tradizione interpretativa, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, ha consentito di regolare le distanze tra le costruzioni attraverso contratti (o più raramente mediante previsioni testamentarie), tali da dar origine a servitù prediali, nelle quali, il fondo che subisce la realizzazione dell’opera a distanza inferiore a quella legale assume la posizione di servente, così da arrecare all’altro fondo quell’utilità, che è tale da attribuirgli la posizione di dominante. La costituzione di una servitù volontaria non sarebbe viceversa consentita tutte le volte in cui una prescrizione del regolamento edilizio avesse a imporre l’osservanza di un distacco maggiore delle costruzioni anche a partire dal confine, in ragione della finalità d’interesse collettivo di queste.
    Alle stesse condizioni, si è sempre ammesso poi l’acquisto del diritto attraverso l’usucapione, almeno sino ad alcune più recenti decisioni di legittimità, per le quali non vi sarebbe contraddizione alcuna, tra il prevedere l’invalidità degli atti di autonomia negoziale diretti a costituire una servitù in deroga alle distanze legali, stabilite negli strumenti di pianificazione urbanistica, e l’acquisto attraverso il possesso continuato per venti anni da parte del titolare del fondo dominante. 
  3. Occorre domandarsi se si debba o non ammettere la costituzione della servitù in deroga alle distanze tra le costruzioni, quando queste siano stabilite dai regolamenti locali o da altri strumenti urbanistici, mediante destinazione del padre di famiglia. La questione si rivela di interesse significativo, se si considera che le costruzioni vicine possono spesso costituire parti di un edificio condominiale (specialmente orizzontale).
    L’istituto della destinazione, ignoto al diritto romano, si è sviluppato a partire dai glossatori accanto a quello dell’usucapione, condividendo con questo il fondamento consistente nel mantenere lo status quo ante.
    Se ne deve quindi concludere che, ammessa l’usucapibilità della servitù consistente nel mantenere un edificio o una costruzione a distanza inferiore a quella stabilita dall’art. 873 ovvero dalle fonti subprimarie che lo integrano, deve inevitabilmente consentirsi pure alla destinazione del padre di famiglia di dar origine a quel diritto.
  1. Deve ritenersi valida infatti la transazione, con la quale le parti pongano fine a una lite, dando origine a una servitù, consistente nel mantenere costruzioni o edifici a distanza inferiore a quella stabilita dalle fonti subprimarie. Lo stesso dicasi quando a tale stipulazione si pervenga all’esito del procedimento di mediazione (tanto più quando le parti si trovino a negoziare l’«accertamento dell’usucapione» della servitù). 
  2. L’impostazione della giurisprudenza forense sui diversi punti è criticabile da diversi punti di vista. Essa valorizza, anzitutto, la normativa regolamentare, ben oltre la portata che, nella materia, le sembrerebbe riconosciuta dalla norma primaria. Il postulato, secondo cui alla prima andrebbe in ogni caso riconosciuto di realizzare interessi pubblici, si rivela infatti da dimostrare volta per volta, giacché è dato di immaginare tanto situazioni in cui ciò si può verificare quanto situazioni in cui ciò non sembra accadere. Né – dal versante opposto – si riesce del resto a comprendere perché si voglia riconoscere quel carattere di norma di ordine pubblico, soltanto quanto questa si trovi stabilita da fonti subprimarie, visto che, anche la previsione codicistica ha riguardo ad esigenze di protezione dell’igiene, e quindi della salubrità dei luoghi. Il carattere imperativo della regola subprimaria – a dispetto del fatto che le discenderebbe dall’esigenza di protezione dell’interesse pubblico – risulterebbe poi attenuato grandemente quando esso si trovi a confliggere con il non ben precisato interesse alla stabilità delle relazioni di vicinato.
    A ben vedere, è poi assai difficile (per non dire impossibile) ammettere che la norma regolamentare possa assurgere al rango di norma imperativa, ancor più quando quel carattere venga negato alla norma primaria, che la legittima, e se si tiene conto della riserva di legge (sia pure relativa, ma pur sempre di riserva si tratta) rinvenibile all’art. 42, 2° comma, cost.
  1. Si deve ipotizzare allora che, in linea di principio, gli atti negoziali con i quali le parti intendano costituire la servitù prediale, consistente nel mantenere la costruzione a distanza inferiore da quella legale, vadano ritenuti validi, sia che si trovino a derogare la distanza di tre metri stabilita nel codice, sia quando si trovino invece a derogare quella di distacco dal confine, stabilita dai regolamenti edilizi oppure dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore o da altra fonte integratrice della regola codicistica.
    Si dovrebbe opinare diversamente, invece, quando alla normativa regolamentare non potesse riconoscersi natura integratrice della disposizione codicistica. Ciò si deve riconoscere tutte le volte in cui il distacco tra gli edifici sia imposto, pur quando questi appartengano allo stesso titolare. In tali casi, non sussiste infatti alcuna relazione di vicinato e la previsione risponde, senza dubbio alcuno, ad esigenze differenti rispetto a quelle dettate dall’art. 873.
    Né ad ammettere la validità del negozio costituivo di servitù prediale si può ritenere compromesso l’interesse pubblico, sia che questo si voglia individuare nello stesso articolo 873, sia che lo si voglia ricercare in quelle norme subprimarie che lo integrano.
    Il punto nodale dell’intera questione riposava e continua a riposare infatti sull’art. 872. La violazione della disciplina sulle distanze comporta quelle «conseguenze di carattere amministrativo», che nessun contratto (anche quando dia origine a una servitù prediale) può impedire. Non si comprende la ragione per la quale la tutela della previsione subprimaria dovrebbe trovarsi condivisa con quella del giudice civile, che vi può provvedere solamente quando alcuno glielo domandi e sempre che non si sia perfezionato il periodo stabilito per l’usucapione.
    Una volta che si riconosca la validità del contratto stipulato tra vicini, con il quale uno consenta che l’altro costruisca a distanza inferiore da quella stabilita dalle norme subprimarie, semplicemente si nega, a quanti risultino gravati dalla servitù, di accedere alla protezione risarcitoria e a quella ripristinatoria, stabilita all’art. 872, ma resta ben saldo il potere dell’amministrazione di assicurare il rispetto delle disposizioni che essa stessa ha emanato.
Condividi
Altri Articoli